05/07/2018
21.00

Rachel è una donna in grave crisi: divorziata, ancora innamorata del marito nonostante questi abbia una nuova famiglia, trova rifugio solo nell’alcol. Durante i suoi viaggi in treno per andare al lavoro osserva dal finestrino una coppia di giovani e comincia a immedesimarsi nella ragazza, Megan, bella e piena di vita. Quando scopre che questa ha una relazione con un altro uomo, rivive il proprio trauma una seconda volta e perde il controllo. Quando si sveglia e scopre che Megan è scomparsa non riesce a ricordare se è stata testimone oppure protagonista della sua sparizione.
Tratto da un bestseller di Paula Hawkins, La ragazza del treno prova a rinverdire i fasti del giallo classico, colorandolo di sfumature sexy e di un’indagine psicologica nella mente di una alcolista. Ma il film di Tate Taylor difetta gravemente negli elementi base di un’opera cinematografica, nelle sue componenti essenziali. In primis la sceneggiatura, adattamento di un romanzo incentrato sui pensieri delle sue protagoniste e ostico da trasporre su grande schermo: la scansione temporale della storia, con i suoi balzi in avanti e all’indietro, suona puramente artificiosa, senza essere suffragata da esigenze narrative né aggiungere una sfumatura significativa al film. Il cast inoltre assembla attori di per sé ottimi, adattandoli a ruoli che non sono i loro: Emily Blunt, per quanto imbruttita, resta lontana dalla protagonista del romanzo; Edgar Ramirez si lascia andare a un accento spagnolo pur interpretando uno psicanalista di chiare origini mediorientali (Kamal Abdic); e così via, in un contesto di generale trascuratezza per la credibilità di ogni dettaglio.
La presenza di Blunt e la sua inevitabile valenza extra-diegetica di star sembrano l’unica giustificazione all’empatia che si crea tra lo spettatore e il personaggio, anche di fronte alle azioni più incomprensibili o esecrabili di quest’ultimo. Ma la regia di Taylor, anziché avvalersi del contrasto, lo asseconda, annullando già all’origine il contraddittorio mistero di cui si nutre un whodunit. Riusciamo mai a credere davvero che Rachel sia colpevole di qualche atto irreparabile? Riusciamo a empatizzare con lei quando scatena la sua rabbia in un bagno giurando di voler uccidere con le sue mani Megan per il solo fatto di tradire il marito?
Ma se sui fondamentali La ragazza del treno non eccelle, neanche i particolari aiutano a salvare il film di Taylor, già regista di un mediocre biopic su James Brown (Get on Up): Haley Bennett vanta un corpo e una fisicità tali da renderla credibile come sex symbol, ma non l’espressività necessaria per rendere la complessa personalità di Megan. Così come il contrasto tra il candore di interni maniacalmente curati dai propri inquilini e i torbidi intrighi che si instaurano tra loro non va oltre il più consunto stilema da Peyton Place in poi. Tutto già (e meglio) raccontato da Lynch, Kasdan e infiniti altri registi di gialli e noir, senza il ricorso a metafore come il montaggio dell’epilogo, che accosta le tre protagoniste della tragedia a tre Grazie, accomunate dal medesimo percorso di vita. Il corpo sensuale (Megan), la mente soggiogata (Rachel) e l’istinto materno (Anna) sono infine riunite in un’unica entità, liberate dalle catene di un aguzzino fallocrate. Un’appendice visiva del tutto didascalica e superflua.
Menzione per le musiche di Danny Elfman, unico elemento salvabile di una trasposizione destinata a deludere tanto i fan del romanzo che i suoi detrattori.

Regia di Tate Taylor

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